domenica 6 gennaio 2013

UNA TORRIDA TRISTEZZA


Ho appena letto un libro che racconta la vita di Marco Pantani ("un uomo in fuga" di Manuela Ronchi,Gianfranco Josti) e devo dire che mi ha molto turbato.
Da appassionato di ciclismo (e cicloamatore) del Pantani campione sapevo già  molto; del Pantani uomo praticamente niente. Attraverso le pagine del libro ho potuto avvicinarmi all'infinita fragilità di Marco, scoprendo quanto è facile divenire preda delle proprie paure, delle proprie tristezze. 

Il 5 giugno 1999 ricordo che ero in treno (mini vacanza per il compleanno) ed appresi la notizia della squalifica di Pantani dall'ormai vinto Giro d'Italia dalle battute di due ragazzotti nel vagone. O meglio, visto che le frasi che si erano scambiate erano prive di senso(Pantani dopato), risi considerandole solo delle infelici battute. Poi sceso dal treno la notizia continuava ad essere ripetuta da altre persone e allora mi resi conto che doveva essere vera.Purtroppo.
Dopo il primo momento di smarrimento, a parte una frangia di tifosi senza se e senza ma, tutto il mondo  sportivo condannò Pantani, dando per certa l'assunzione di EPO. Sinceramente non ricordo quale fu la mia prima analisi a freddo, ma rimasi molto stupito dalla reazione ostinata del campione e della sua squadra. Se il negare in prima battuta l'assunzione di dopanti era logico, col tempo mi aspettavo una mezza ammissione e poi l'assunzione completa di responsabilità. Invece niente.
Pantani ritornò alle corse, ma si capiva che Madonna di Campiglio lo aveva distrutto. In più pensarono:"ecco che ora che ha smesso di doparsi non vince più". Ma se questa ingenuità poteva essere tollerata perché detta dal pubblico, analoga considerazione non valeva per gli addetti ai lavori e per i giornalisti sportivi. E invece...
Insomma, la vita di Pantani può essere divisa in due: prima del 5 giugno 1999 e dopo questa maledetta data. Ma se quasi tutti conoscono la prima fase, quella del Pantani campione, ed il giorno della tragica fine, pochi (ed io ero uno di questi) sanno quanto è accaduto al Pantani uomo tra il 5 giugno 1999 e il 14 febbraio 2004. Questo libro mi ha aiutato a capire proprio questo.
Gli addetti ai lavori, quelli che pubblicamente onorano il Pirata, ma privatamente pensano che se l'è cercata,  diranno che è un libro "un po'" di parte (la Ronchi è stata la sua manager, oltre che grande amica del campione).
E non nascondo di averlo pensato anche io (dalla lettura traspare in molti punti un tremendo senso di colpa della Ronchi per non aver saputo aiutare l'amico cosa che, alla fine, può aver un po' offuscato la sua obiettività). Ma il risultato complessivo resta davvero tremendo.
A leggere quelle pagine si capisce che c'era un sacco di gente che speculava, direttamente o indirettamente, sul dramma di Pantani e sulla sua depressione e tossicodipendenza.
A leggere quelle pagine si capisce che è stata una morte annunciata.
Se prima provavo meraviglia per il Pantani campione e (purtroppo) pena per il Pantani uomo, oggi i due sentimenti si sono bilanciati verso l'alto. Pantani per me è stato un grande uomo, prima ancora di essere il più grande ciclista di tutti i tempi.
E se prima avevo poche ma sterili incertezze sul fatto che si fosse o no dopato, oggi sono certo che non lo ha fatto. Per quanto non sia un amante delle teorie complottistiche, purtroppo penso che sia stato  proprio vittima di un complotto. I motivi mi sfuggono naturalmente, ma l'ostinazione con la quale Marco ha continuato a dichiararsi innocente e, soprattutto, l'autodistruzione che lo ha portato allo morte, non fanno altro che dimostrare la sua innocenza. Fa male, davvero male pensare che si debba dimostrare la propria innocenza in questo modo. C'è tanta gente che si porterà questo peso sulla coscienza, soprattutto "grandi" giornalisti sportivi (luridi sciacalli), finti amici del campione (luridi sciacalli), addetti ai lavori (luridi sciacalli) e tutti quanti hanno sfruttato in ogni modo il dramma di Marco. 
Naturalmente vi consiglio di comprare e leggere il libro in questione, soprattutto perché una parte del ricavato va alla Fondazione Pantani.
L'ultimo pensiero naturalmente è per Marco, nella speranza che oggi, ovunque sia, abbia dimenticato la torrida tristezza che lo ha piegato, e si sia rialzato, ritrovando  il sorriso della felicità.
La felicità che tutti noi, volendo o non volendo, gli abbiamo portato via.

"L'ho fatto dopo grossi incidenti, mi sono sempre rialzato, ma questa volta non mi rialzo più. Ora vorrei solo un pò di rispetto. Penso ai miei tifosi, mi dispiace per loro e per il ciclismo"
(Marco Pantani, Madonna di Campiglio 1999)



2 commenti:

  1. Ciò che frega l’uomo, come essere umano in generale, è quella sete di affetto, che si cerca di placare attraverso l’ottenimento della stima, della considerazione e dell’approvazione da parte degli altri. E frega sempre di più quell’uomo che è rimasto bambino per il fatto di non esssere stato abbastanza dissetato dalla propria famiglia.
    E’ forse un peccato, avere sete? No, ma lo viviamo come se fosse una condanna, in una società che ci fa sempre sentire inadeguati.
    I bambini riescono sempre a carpirci il cuore e dimostriamo per loro grande affetto e tenerezza.
    Non voglio criticare il tuo sentimento, quindi, ma prendo atto del fatto che devo ancora sentire qualcuno che nutra la stessa "pena" per Falcone e Borsellino. Probabilmente, siamo fatti così. Siamo umani.
    E’ molto bello questo tuo post: lo è per i ciclisti, lo è per gli agonisti, lo è per me che non ho mai amato l’agonismo e che uso la bicicletta come divertente e benefico mezzo di trasporto.

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  2. purtroppo la depressione è uno dei mali più distruttivi per l'uomo e, in molti casi, non lascia scampo.
    Non ho i mezzi per approfondire i tanti perché delle fragilità di Pantani, ma la pena che provavo prima si è ormai dissolta.
    Tendiamo a provare pena per chi, sbagliando, ha pagato tanto, troppo.Ma Pantani ha pagato senza avere colpe, a parte quella di essere troppo fragile e sensibile per gli sciacalli che l'hanno colpito fino alla fine.
    Tutti noi, volendo o non volendo, ci trasciniamo dietro traumi, insicurezze, frustrazioni, e non poche volte ci sentiamo tristi anche senza un motivo apparente. Sarà come dici tu: siamo fatti così.
    Restiamo umani!
    ciao e grazie per il commento.

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